Divieto di pubblicità, i dubbi che il governo deve risolvere

Divieto di pubblicità, i dubbi che il governo deve risolvere

Legislazione

Il governo sta riflettendo se allentare o meno il freno sul divieto di pubblicità del gioco, nella delega fiscale chiede infatti di favorire l’“impiego di forme di comunicazione del gioco legale coerenti con l’esigenza di tutela dei soggetti più vulnerabili”. Insomma, il divieto non va cancellato completamente, ma magari è possibile trovare un compromesso che rispetti anche le esigenze degli operatori del gioco.

Il punto di equilibrio è quantomai difficile da trovare

Non sarà un compito facile, anche perché non è possibile dire quanto il divieto totale di pubblicità abbia concretamente aiutato i soggetti a rischio. Purtroppo non ci sono dati ufficiali, la ricerca condotta dall’Istituto Superiore di Sanità risale al 2017, quindi a prima che venisse introdotto il divieto, e da allora non è stata più aggiornata. E il governo in ogni caso dovrà considerare una serie di dati di fatto e sciogliere dei dubbi a cui è difficile dare una risposta.

C’è da considerare che l’Italia è stato il primo paese a vietare qualunque forma di pubblicità del gioco. Per l’esattezza lo fece cinque anni fa il primo governo Conte con il decreto dignità. Ma poi diversi altri Stati hanno preso l’esempio, anche se nella maggior parte dei casi hanno optato per interventi meno radicali. Ultimamente persino la Gran Bretagna – che sul gioco aveva un atteggiamento piuttosto liberale – sembra voler mettere un freno. Insomma, l’opinione che un argine sia necessario sembra abbastanza diffusa.

Come ottenere visibilità senza fare pubblicità al gioco

Altro dato di fatto è che in questi cinque anni, gli operatori del gioco – quantomeno quelli delle scommesse – hanno trovato qualche escamotage per ottenere un minimo di visibilità. Solo per citare gli esempi più recenti, StarCasinò Sport è diventato l’Official Infotainment Partner del Napoli, LeoVegas.News a febbraio aveva siglato un accordo simile con l’Inter e adesso sta pianificando le nuove strategie. Poi ci sono tanti altre varianti sul tema. E per inciso lasciano capire che anche il mondo dello sport senta la mancanza dei bookmaker.

Occorre sottolineare che questi accordi non violano in alcun modo il divieto. Le compagnie in questione, infatti, non pubblicizzano nel modo più assoluto dei giochi, per il semplice fatto che non offrono questi prodotti. Forniscono esclusivamente dei contenuti editoriali – come highlights, notizie e statistiche – ai club di calcio, o ai media e portali informativi. Poi però hanno un nome che richiama il brand di un bookmaker. E quindi inevitabilmente ricorda allo spettatore che esiste una compagnia con quel nome che offre giochi e scommesse.

Il precedente delle sigarette

Alla fine gli operatori del gioco non si sono inventati nulla. Probabilmente le prime a utilizzarla per schivare un divieto di pubblicità sono state le multinazionali del tabacco. Basti pensare a questa o quella marca di sigarette che poi ha prestato il proprio nome a linee di abbigliamento, orologi, gare per fuoristrada, o regate di vela.

Si chiama brand licensing, e fa leva sulla forza che un marchio ha acquisito nell’immaginario collettivo. Nel caso del tabacco, però, forse ha accresciuto ancor di più la forza dei brand. Ha contribuito a creare un modello, legando la sigaretta a uno stile di vita, o all’immagine del duro. Bisognerebbe capire allora se questo abbia avvicinato al fumo più persone di quanto non facesse la pubblicità vera e propria.

Ma per i bookmaker il divieto è ancora un problema

Altro dato di fatto è che i bookmaker non hanno smesso di protestare contro il divieto di pubblicità. Sostengono che la tagliola crei diversi inconvenienti. Impedisce ad esempio a chi è appena arrivato sul mercato di farsi conoscere, e quindi avvantaggia i player più grandi. Ma soprattutto è un regalo agli operatori illegali. Chi non ha la concessione italiana, e magari ha sede a migliaia di chilometri di distanza, non ha infatti alcun motivo di rispettare il divieto. E infatti non lo fa. Per rendersene conto, basta navigare per qualche decina di minuti su Google e su Google News.

Gioel Rigido